Alberto Reviglio
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Dall'ombelico al mondo: la fotografia come rito ironico
di Alberto Reviglio

Non aveva pensieri né sensazioni, era solo il più grande di quei pezzettini di creta,
una zolletta secca che una leggera pressione delle dita sarebbe bastata a sbriciolare,
una resta che si era staccata dalla spiga ed era trasportata a caso da una formica,
una pietra dove di tanto in tanto si riparava un essere vivente,
uno scarafaggio, o una lucertola, o un’illusione.

 Josè Saramago
(da “La caverna”)

Un treno affollato, studenti, pendolari, gente in piedi. Luci fredde, le otto del mattino, fuori una campagna dalle nebbie basse, quasi di primavera. Sarà la spossatezza, o forse il peso stesso del pensiero, l’incapacità di difendersi dal rumore di tutte queste voci, del treno, del mondo che corre dietro al finestrino, ma ad un certo punto la volontà, che fino a poco prima ci forniva uno scopo, ed una direzione, un appiglio, viene meno, la nostra identità si dissolve, non ci si sente nient’altro che uno fra i tanti, qualche cosa in qualche posto, anche lontano, vago, una pietra nel fiume. E ciò che sorprende, soprattutto, alleggeriti per un istante di questa petulante identità, è il senso di sollievo che ci invade, che accompagna una sottile malinconia, che ci fa sorridere.
Prendendo spunto dalla situazione sopra descritta, ovvero la perdita dell’Io come sollievo, ho realizzato l’installazione fotografica “Viaggio anacronico in quattro atti” presentata dalla Galleria “Scatola Chiara”. Le foto che la compongono, però, per la maggior parte, sono state scattate in un tempo, a volte anche remoto, precedente il concepimento del progetto così come qui esposto (fanno eccezione alcune foto della 4° parete, “La pioggia”).
Sono esse, nel loro lento e costante costituirsi come “corpus”, che hanno generato il progetto sotto questa forma assolutamente temporanea ed effimera pur se compiuta, come lo stadio di una metamorfosi. Sono esse, anzi, che hanno contribuito, nel tempo, al formarsi di quella stessa sensazione di perdita di identità, e dell’anelito liberatorio che l’ha accompagnata, agendo come elementi di un’indagine sul mondo, come appunti, come indizi.
Susan Sontag cita Minor White come fautore della “scoperta di se stessi attraverso la macchina fotografica”, ed afferma inoltre che “il fotografare è anche un modo di incontro intuitivo, preintellettuale”1 con ciò che abbiamo intorno.
Fare fotografie del mondo che ci circonda è una maniera per difendersi da esso, per non essere sopraffatti dalla realtà sempre incombente: con il lavoro di scelta e di adozione nei confronti degli oggetti fotografati si realizza un’appropriazione simbolica, una forma di “conoscenza senza conoscenza”2 istintuale, che rappresenta un rito magico, ludico, quasi infantile per avvicinarsi al mondo e per assoggettarlo al proprio potere. Quando Kafka dice che “si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente”3, intende probabilmente la fotografia come un procedimento di sottrazione, come strumento di metabolizzazione, di assimilazione del mondo in se stessi: ciò che catturo con una foto diventa magicamente parte di me, mi costituisce, e posso dimenticarlo, posso rimandare la sua contemplazione in un secondo momento, ed anche se questo momento, come spesso avviene, non si realizza mai, la fotografia, pur non diventando immagine, “trova la sua giustificazione d’essere non più tanto come oggetto quanto come atto” 4, come dichiarano Gilles Mora e Claude Nori nel “Manifeste photobiographique”.
Scrive Serge Tisseron: “la fotografia è uno strumento di assimilazione psichica del mondo prima di essere un insieme di significati simbolici. (…) È una forma di partecipazione empatica al mondo prima di essere un’immagine”5.
L’approccio fotografico al mondo si può dunque vivere come un rito, come una danza tribale: l’obiettivo della macchina fotografica diventa una protezione, una maschera, visto attraverso di esso il mondo non fa più così male, è ritagliato, sminuzzato, rinchiuso, controllato, ne diventiamo proprietari di un frammento, comincia ad appartenerci. “La fotografia è soprattutto un rito sociale – dice la Sontag – una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere”6. Ma questo rito permette anche un avvicinamento, una compenetrazione con il mondo, la fotografia è una traccia che noi lasciamo su di esso e che esso lascia su di noi.
Rivolgendo l’obiettivo verso di sé, si diventa noi stessi frammento del mondo, tessera di mosaico in mezzo alle altre. E se questo è uno specchio, anche le altre fotografie divengono specchi, quasi il mondo stesso ci si riflettesse e si fotografasse da sé: osservatore ed osservato si identificano.
L’autoritratto è anch’esso uno strumento di indagine, non su di sé, ma su di sé nel mondo, ed in particolare sulla collisione fra queste due entità, sulla loro interazione, sul loro conflitto, e, per esteso, sul mondo stesso che finalmente ci include come oggetto e non più come soggetto.
“Io è un altro”7, scriveva Rimbaud; e l’autoritratto è sia un segno rassicurante della propria presenza, sia un occhio che ci spia, un’“inquietante estraneità”8. “La fotografia – dice Barthes – è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza di identità”9. Con l’autoscatto, non solo “non si sa davvero più dove si è, ma nemmeno chi si è”10, scrive Denis Roche: l’autoritratto diviene così una sorta di “cupio dissolvi”, una fuga dal mondo materiale che spesso diventa insopportabile per rifugiarsi in quello immateriale dell’immagine, dove (una volta avvenuto il passaggio da soggetto ad oggetto), ci si può prender gioco di se stessi, del proprio aspetto, dei propri mutamenti, del tempo che scorre.
Nell’ottica barthesiana della fotografia “come certificato di presenza”, ma anche “come ritorno del morto, come fenomeno che ha qualcosa a che vedere con la resurrezione”11, l’autoritratto è un rito di scongiuro, è un mettere in scena la propria morte per esorcizzarla, è darsi una morte finta per farsi beffe si quella vera.
E quando l’autoritratto da atto diventa immagine, ed è mostrata, è quanto di meno compassionevole ci sia in fotografia, perché non potrà mai mettere l’autore ed il fruitore sullo stesso piano di complici spettatori, ma rende il fruitore necessariamente malizioso, dubbioso e poco indulgente, contribuendo anche in questo modo al compimento di un rito ironico.
L’accostamento con altre immagini, sempre prodotte dallo stesso soggetto e quindi appartenenti alla sua vita, accentua ulteriormente questo rito.
Le fotografie accostate agli autoritratti, e che con essi compongono l’opera, nascono con lo spirito rituale sopra descritto, figlie di nessuno, recuperate fra gli innumerevoli scatti realizzati negli anni (il potere della fotografia digitale!) ed associate alle altre con un criterio ludico e simbolico piacevolmente arbitrario ed istintivo. Da deboli fotografie assolute diventano potenti entità relative a complemento di altre fotografie, mettendo in moto un meccanismo di associazioni e rimandi che va oltre la finitezza dell’immagine e la cui manovra viene lasciata allo spettatore, che deve colmare lo spazio psichico che unisce le due o più fotografie giustapposte. “Una fotografia è solo un frammento, scrive la Sontag, e, col trascorrere del tempo, i suoi ormeggi si staccano. Va allora alla deriva in un dolce ed astratto passato, aperta ad ogni sorta di lettura (o di accoppiamento con altre fotografie)”12.
Comincia così un viaggio da una riva ad un’altra attraverso l’ignoto che circonda, sia nello spazio che nel tempo, l’oggetto della fotografia, ignoto che in questo caso è invece occupato con forza dalle immagini che vi sono accostate, che entrano in contrasto, in interferenza fra loro, creando assonanze e dissonanze, facendo rumore, innescando comunque un rapporto. “È la fotografia che ha mostrato il modo migliore per accostare la macchina da cucire e l’ombrello”13, afferma ancora la Sontag riferendosi all’incontro di oggetti prefigurato da Lautréamont e che è alla base dell’estetica surrealista.
Sparigliando in questa maniera la realtà, ci si appresta poi a ricomporla secondo esigenze più o meno inconsce, che in qualche misura soddisfino la ricerca di nuovi equilibri, con un metodo a metà strada fra l’empirico e l’ideale che ricalca, sempre in maniera ironica, quello della sperimentazione scientifica.
Sono state così accostate immagini anche molto lontane nel tempo, come quelle in bianco e nero, ad altre recenti, alla ricerca di un ponte, di una comunicazione fra passato e presente, disponendo le stesse sulle pareti come elementi di una formula chimica o matematica, come tessere di un domino che si determinano l’una con l’altra, come un gioco di memoria associativa.
Anche in questo caso è nell’atto stesso del comporre le immagini, nell’associarle fra loro che risiede l’interesse simbolico e propedeutico dell’operazione, come nel lento e paziente completarsi di una raccolta di figurine che, una volta terminata, è assimilata completamente e non importa più.
La denominazione delle quattro parti in cui è divisa l’installazione (il Rifugio, il Sonno, la Fuga, la Pioggia) vuole richiamare alcune problematiche simboliche ricorrenti nel corso della mia vita, solo in parte definite temporalmente nel corso degli anni e tutt’ora presenti. La fotografia ricopre così appieno il proprio ruolo di oscillazione suprema fra permanenza ed impermanenza: la composizione delle immagini così come proposta è una sorta di equilibrio astrale momentaneo che va incontro, per aumento dell’entropia, a sicura e necessaria dispersione, ma non alla scomparsa degli elementi che lo compongono; soprattutto, mantiene una direzione, che, partendo dallo sguardo rivolto essenzialmente verso di sé dell’adolescenza, porta ad uno sguardo che si apre in misura sempre maggiore al mondo, fino a riconoscere, nel suo caos e nella sua bellezza, anche se stessi.

1 S.Sontag – Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, (1973) – Einaudi, Torino 1978
2 S.Sontag – Sulla fotografia, op.cit.
3 G.Janouch – Conversazioni con Kafka, (1951) – Guanda, Parma 1998
4 G.Mora e C.Nori –“L’été dernier. Manifeste photobiographique” – Éditions de l’Étoile, Paris 1983). Per gli autori il compimento di un progetto fotobiografico si rifà alla costruzione di un territorio fotografico secondo le leggi di un’esigenza epifanica (d’ordine pratico ed esterna all’immagine, ma propria dell’atto che le genera) e della subordinazione di ogni esigenza stilistico formale (interna)
5 S.Tisseron – Le mystère de la chambre claire. Photographie et inconscient – Flammarion, Paris 1996
6 S.Sontag – Sulla fotografia, op.cit.
7 A.Rimbaud – Lettera a Paul Démény, 15 maggio 1871
8 S.Tisseron – Le mystère de la chambre claire, op.cit.
9 R.Barthes – La camera chiara. Nota sulla fotografia – Einaudi, Torino 1980
10 D.Roche – La disparition des lucioles. Réflexion sur l’acte photographique – Éditions de l’Étoile, Paris, 1982
11 R.Barthes – La camera chiara, op.cit.
12 S.Sontag – Sulla fotografia, op.cit.
13 S.Sontag – Sulla fotografia, op.cit.
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